Con la presente siamo lieti di sottoporre alla Vostra attenzione le principali novità in materia fiscale del mese disponibili anche sul sito dello Studio www.e-ius.it.
2 NOVITÀ IN MATERIA DI TERZO SETTORE. 3
3 NOVITÀ IN MATERIA DI CONTENZIOSO TRIBUTARIO.. 3
4 NOVITÀ IN TEMA DI START-UP, INDUSTRIA 4.0, MARCHI E BREVETTI 3
5 NOVITÀ IN MATERIA DI WELFARE E LAVORO DIPENDENTE 3
1 ATTIVITÀ LEGISLATIVA
1.1 Decreto Legge 27 gennaio 2022, n. 4: Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19, nonché per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico.
Nella Gazzetta Ufficiale (GU Serie Generale n.21 del 27-01-2022) è stato pubblicato il Decreto Legge n. 4 del 2022 (c.d. “decreto sostegni ter”).
Il provvedimento è entrato in vigore in data 27 gennaio 2022.
1.2 Decreto Legge 30 dicembre 2021, n. 228: Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi
Nella Gazzetta Ufficiale (GU Serie Generale n.309 del 30-12-2021), è stato pubblicato il Decreto Legge n. 228 del 2021 (c.d. “decreto Milleproroghe”). Il provvedimento è entrato in vigore in data 31 dicembre 2021. Sulla Gazzetta Ufficiale n. 49 del 28 febbraio 2022, è pubblicata la Legge 25 febbraio 2022, n. 15: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 2021, n. 228, recante disposizioni urgenti in materia di termini legislativi.
1.3 Legge 30 dicembre 2021, n. 234: Legge di Bilancio
Nella Gazzetta Ufficiale (GU Serie Generale n.310 del 31-12-2021 – Suppl. Ordinario n. 49), è stata pubblicata la legge di Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024. (21G00256). Il provvedimento è entrato in vigore in data 1 gennaio 2022.
1.4 Decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146: Decreto Fiscale
Nella Gazzetta Ufficiale 20 dicembre 2021, n. 301 è stato pubblicato il Decreto Legge 21 ottobre 2021, n. 146, noto come Decreto Fiscale, coordinato con la legge di conversione 17 dicembre 2021, n. 215, recante “Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili”.
2 NOVITÀ IN MATERIA DI TERZO SETTORE
2.1 La nota n.5941 del Ministero del Lavoro fornisce chiarimenti in ambito contabile e di rendicontazione per gli enti del terzo settore
Il ministero del Lavoro e delle politiche sociali con la nota n.5941 del 5 aprile 2022 ha fornito chiarimenti in merito alle problematiche operative legate al deposito del bilancio e all’obbligo di adozione dei nuovi schemi (ex Dm 5 marzo 2020).
Per i nuovi soggetti iscritti al Runts (diversi da Odv, Aps e Onlus) l’obbligo di adozione dei nuovi modelli di bilancio scatta solo a partire dall’esercizio finanziario nel quale l’ente ha perfezionato l’iscrizione. Questo significa che laddove si tratti di un ente che abbia ottenuto la qualifica di Ets nel 2022, vi sarà l’obbligo di adottare i nuovi schemi di bilancio a partire dall’esercizio 2022.
Odv e Aps, invece, seppur obbligati a redigere già dall’esercizio 2021 il proprio bilancio secondo i nuovi schemi, potrebbero invece trovarsi in una sorta di limbo per quanto concerne il deposito di tale documento nel Registro entro il 30 giugno di quest’anno. In tal caso, qualora il perfezionamento della loro iscrizione al Runts a seguito del processo di trasmigrazione non si sia concluso entro tale data, avranno la possibilità di depositare il bilancio d’esercizio 2021 entro 90 giorni successivi dal perfezionamento.
Per quanto riguarda le Onlus, viene ribadito l’obbligo per tali enti di adottare i nuovi schemi di bilancio a partire dall’esercizio 2021.Questo significa che la Onlus che abbia optato per iscriversi al Runts nel corso di quest’anno potrà depositare già entro il 30 giugno 2022 il bilancio 2021 nel caso in cui abbia ottenuto la qualifica di Ets prima di tale data. Diversamente potrà ottemperare nei 90 giorni successivi al perfezionamento della propria iscrizione.
3 NOVITÀ IN MATERIA DI CONTENZIOSO TRIBUTARIO
3.1 Contenzioso, legittima la norma sulla trattazione “flessibile”
Le disposizioni sulla trattazione della controversia tributaria, in camera di consiglio o in pubblica udienza, definendo un modello flessibile e capace di assicurare, anche nella versione camerale, un confronto tra le parti effettivo e paritario, oltre che conciliandosi con le caratteristiche strutturali e funzionali del contenzioso tributario, costituiscono espressione non irragionevole della discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali e non violano gli articoli 101, 111 e 136 della Costituzione. Lo ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza n. 73 del 18 marzo 2022.
La Ctp di Catania, investita del ricorso in opposizione a una cartella di pagamento, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 30, comma 1, lettera g), n. 1), legge n. 413/1991, e degli articoli 32, commi. 3 e 33, Dlgs n. 546/1992, denunziandone il contrasto con gli articoli 101, 111 e 136 della Costituzione. Tra i principi della legge delega n. 413/1991, l’articolo 30 citato indicava l’adeguamento delle norme del processo tributario alle norme del processo civile e, in particolare, quello “(del)la trattazione della controversia in Camera di consiglio in mancanza di tempestiva richiesta espressa dell’udienza di trattazione”; l’articolo 33, comma 1, Dlgs n. 546/1992 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 dicembre 1991, n. 413) dispone che “la controversia è trattata in camera di consiglio salvo che almeno una delle parti non abbia chiesto la discussione in pubblica udienza, prevista dall’articolo 34, con apposita istanza da depositare nella segreteria e notificare alle altre parti costituite entro il termine dell’articolo 32, comma 2”.
Il giudice a quo ha osservato che: nel vigore della previgente disciplina del contenzioso tributario, la Corte costituzionale aveva (già) dichiarato l’illegittimità dell’articolo 39, comma 1, Dpr n. 636/1972, nella parte in cui escludeva l’applicabilità del principio di pubblicità dell’udienza ex articolo 128 cpc ai giudizi che si svolgevano dinanzi alle Commissioni tributarie di primo e secondo grado (sentenza n. 50/1989)
la norma del processo tributario sulla pubblicità delle udienze non può essere adeguata, ai sensi della legge delega, all’articolo 275 cpc (modificato dalla legge n. 353/1990) che prevede la discussione in pubblica udienza su richiesta di una parte poiché la posizione del contribuente non è esclusivamente personale, a differenza di quella delle parti nel processo civile, che sono portatrici di interessi individuali
l’articolo 33, comma 1, Dlgs n. 546/1992, nel rimette alla valutazione discrezionale delle parti costituite la trattazione in forma pubblica delle controversie tributarie, contrasta con l’assunto secondo il quale la pubblicità dei dibattimenti giudiziari, implicita nella gestione della giustizia fondata sulla sovranità popolare ex articolo 101, comma 1, Costituzione, può subire eccezioni soltanto in ipotesi limitate (e cioè in relazione a particolari procedimenti e in presenza di un’obiettiva e razionale giustificazione), ipotesi che non possono ravvisarsi nel processo tributario, governato dai principi di trasparenza dell’imposizione fiscale ex articolo 53 Costituzione, di universalità e di uguaglianza, in forza dei quali “la posizione del contribuente non è esclusivamente personale e non è tutelabile con il segreto”, giacché la generale conoscenza “può giovare alla concreta attuazione del sistema tributario e concorre a ridurre il numero degli inadempimenti e degli evasori in genere» (Corte costituzionale, sentenza n. 12/1971);
il valore di rango costituzionale sotteso al principio di pubblicità delle udienze non può essere bilanciato con l’interesse all’economia processuale, privo di eguale rilevanza.
Il giudice rimettente, inoltre, ha lamentato violazione dell’articolo 111 Costituzione poiché, in presenza di una parte portatrice di un interesse pubblico, la garanzia di completezza del contraddittorio non può essere rimessa alla disponibilità della parte di chiedere o meno la trattazione in pubblica udienza.
E, infine, ha sostenuto la violazione del giudicato costituzionale ex articolo 136 Costituzione, poiché il legislatore del 1992 ha introdotto l’articolo 33, Dlgs n. 546/1992 nonostante fosse stato già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 39, comma 1, Dpr n. 636/1972 nella parte in cui escludeva l’applicabilità del principio di pubblicità dell’udienza ex articolo 128 cpc ai giudizi che si svolgevano dinanzi alle Commissioni tributarie di primo e secondo grado (sentenza n. 50/1989).
È intervenuto in giudizio il presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato che, concludendo per la dichiarazione di inammissibilità e, comunque, di non fondatezza delle questioni sollevate, con riferimento agli articoli 101 e 111 della Costituzione:
ha evocato la costante giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 103/1985 e ordinanza n. 748/1988) secondo la quale il rito camerale non si pone in contrasto con il diritto di difesa, poiché l’esercizio di quest’ultimo è variamente configurabile dalla legge a seconda delle peculiari esigenze dei vari processi; ha messo in luce che la trattazione in camera di consiglio assicura una rapida definizione dei giudizi, in ossequio alla garanzia del giusto processo ex articolo 6 Cedu
e che, comunque, il principio di pubblicità delle procedure giudiziarie non ha carattere assoluto;
ha sostenuto che, nel rito tributario, il controllo popolare è assicurato dalla pubblicità degli atti depositati nel fascicolo; dall’ammissione delle parti a esporre le rispettive ragioni oralmente, di persona o con l’assistenza tecnica di un difensore (Corte costituzionale n. 151/1971); dal controllo delle parti medesime sulle fasi del procedimento; dal contenuto della decisione, che deve essere motivata in conformità al canone di congruità argomentativa e resa pubblica.
Quanto alla violazione dell’articolo 136 della Costituzione, l’organo legale ha osservato che l’attuale disciplina del processo tributario, contemplando la pubblica udienza quale forma di trattazione della controversia alternativa a quella camerale, non si pone in contrasto con i principi affermati dalla sentenza n. 50/1989 citata.
In definitiva, la Consulta ha dichiarato “non fondate le questioni di legittimità costituzionale” sollevate dal giudice a quo.
La Consulta ha delineato il quadro normativo di riferimento, tenendo conto sia della successione delle leggi nel tempo, sia degli interventi di legittimità costituzionale.
L’antecedente storico dell’articolo 33, Dlgs n. 546/1992, e cioè l’articolo 39, 1 comma, Dpr n. 636/1972, aveva introdotto la regola, generale e assoluta, della trattazione camerale delle controversie tributarie, espungendo l’articolo 128 cpc dal novero delle disposizioni del cpc applicabili al contenzioso dinanzi alle commissioni tributarie. Il citato articolo 39, nella parte in cui escludeva la pubblicità delle udienze tributarie, prevista, invece, nel processo civile (ex articolo 128 cpc), è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo per contrasto con l’articolo 101 della Costituzione, non
sussistendo nel processo tributario obiettive e razionali giustificazioni a sostegno di una deroga alla pubblicità del dibattimento ancor più avvertita in considerazione della trasparenza dell’imposizione tributaria “i cui effetti riguardano anche la generalità dei cittadini”, e dei principi di universalità e eguaglianza, “onde la posizione del contribuente non è esclusivamente personale e non è tutelabile con il segreto” (Corte costituzionale, n. 50/1989).
Proprio a seguito della sentenza n. 50/1989, l’articolo 1, legge n. 198/1989 (“Pubblicità delle udienze dinanzi alle commissioni tributarie”), al comma 1, ha disposto che le “udienze dinanzi alle commissioni tributarie sono pubbliche. Per la loro disciplina si applicano gli artt. 127, 128, 129 e 130 del codice di procedura civile” e, al comma 2, ha previsto che nel “primo comma dell’articolo 39 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636, le parole: ‘e dell’articolo 128’ sono soppresse”.
Il successivo articolo 33, comma 1, Dlgs n. 546/1992, nel prescrivere che la trattazione della controversia tributaria avvenga in camera di consiglio, e, quindi, in modo non pubblico e senza la presenza delle parti e dei difensori, salvo che “almeno una delle parti non abbia chiesto la discussione in pubblica udienza” nel termine ultimo di 10 giorni liberi precedenti la trattazione della controversia (articolo 32, comma 2, Dlgs. n. 546/1992), si è conformato all’indicazione programmatica dettata all’articolo 30, comma 1, lettera g), n. 1, legge delega n. 413/1991, nella prospettiva di un progressivo adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del rito civile dove assumere la trattazione scritta come regola generale della fase decisoria corrispondeva alla necessità, comune al rito tributario, di imprimere maggiore speditezza al processo al fine di ridurre i tempi di definizione delle liti.
Tuttavia, la circostanza che il legislatore abbia espressamente lasciato alle parti la scelta di chiedere la trattazione della controversia in pubblica udienza non è priva di rilevanza. Tale facoltà costituisce, infatti, estrinsecazione del diritto di difesa ex articolo 24 della Costituzione, la cui violazione – ravvisabile nel caso in cui la commissione tributaria disattenda una rituale richiesta di fissazione di udienza, decidendo la controversia in camera di consiglio – comporta una nullità processuale che travolge la stessa sentenza (Cassazione, n. 32593/2021).
Al riguardo, la Consulta ha richiamato le pronunce nella quali ha (già) dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 33, comma 1, Dlgs n. 546/1992 con riferimento al diritto di difesa ex articolo 24 della Costituzione (sentenza n. 141/1998). I giudici di piazza del Quirinale hanno ribadito la ragionevolezza di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte della discussione della causa con riferimento alla natura documentale tipica del processo tributario sia sotto l’aspetto probatorio che difensivo. Tale processo, infatti, si svolge attraverso atti scritti mediante i quali le parti provano le rispettive pretese o spiegano le relative difese (ricorsi, memorie), essendo consentite brevi repliche scritte fino a cinque giorni liberi prima della data della camera di consiglio ex articolo 32, comma 3, Dlgs n. 546/1992. Diversamente da quanto disposto dalla normativa previgente, il legislatore del 1992 non ha compresso il diritto di difesa limitando il contraddittorio delle parti innanzi al giudice terzo poiché ha previsto espressamente la possibilità per le parti di presentare istanza di discussione in pubblica udienza e di svolgere pubblicamente dinanzi al collegio le proprie difese. Di conseguenza, la mancata presentazione nel termine di legge della relativa istanza, implicando l’assenza di interesse delle parti a essere presenti alla trattazione della causa, personalmente o mediante i propri difensori, renderebbe giustificata la loro successiva assenza in camera di consiglio,
senza che ciò contrasti con il principio di pubblicità (gli atti depositati nel fascicolo di causa e accessibili a chiunque vi abbia interesse; la decisione che deve essere motivata nell’osservanza del canone di congruità argomentativa – Corte costituzione, ordinanza n. 121/1994; della trattazione in camera di consiglio è redatto processo verbale dal segretario di sezione ex articolo 33, comm3, Dlgs n. 546/1992), posto a garanzia dell’esigenza di conoscenza delle vicende tributarie e di controllo dell’opinione pubblica.
Con riferimento alla lamentata violazione dell’articolo 101 della Costituzione, la Consulta ha ribadito che il rito camerale risulta essere più rispondente all’esigenza di un più rapido funzionamento della processo (Corte costituzione, sentenza n. 543/1989), soprattutto di quello tributario, gravato da un contenzioso di dimensioni particolarmente ingenti e caratterizzato da importanti tempi di decisione, rispetto al quale è molto sentita maggiormente l’esigenza di rapidità a tutela dei diritti non solo dei cittadini, ma anche del Fisco, per la “fondamentale ed imprescindibile esigenza dello Stato di reperire i mezzi per l’esercizio delle sue funzioni attraverso l’attività dell’Amministrazione finanziaria” (Corte costituzione, ordinanza n. 273/2019).
La sentenza n. 73/2022 in commento, infine, ha respinto anche la censura con la quale la Ctp di Catania aveva prospettato un vulnus all’articolo 136 della Costituzione poiché ha affermato che non sussiste alcuna violazione del giudicato costituzionale formatosi con riferimento all’articolo 39, Dpr n. 636/1972, mediante “esercizio … del potere legislativo”. Secondo la costante interpretazione della Corte (sentenze n. 236/2021, n. 256/2020, n. 5/2017, n. 245/2012 e n. 350/2010), infatti, la violazione del giudicato costituzionale si configura “solo quando la nuova disposizione mantiene in vita o ripristina gli effetti della medesima struttura normativa oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale” (vedi, in particolare, n. 236/2021).
L’articolo 33, Dlgs n. 546/1992, invece, diversamente dall’articolo 39, Dpr n. 636/1972, prevede espressamente la pubblicità dell’udienza tributaria, sia pure condizionandola alla presentazione, da almeno una delle parti, di un’apposita istanza di discussione e, in mancanza di tale richiesta, prescrive la trattazione camerale della controversia, lasciando coesistere i due riti, in pubblica udienza e in camera di consiglio, in rapporto di alternatività. La Corte costituzionale ha confermato la validità di tali valutazioni anche alla luce della positivizzazione, ex legge costituzionale n. 2/1999 (inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), delle garanzie del giusto processo, tra le quali si inscrive la pubblicità dei dibattimenti giudiziari.
Nonostante il principio di pubblicità dei dibattimenti giudiziari quale “componente naturale e coessenziale del processo ‘equo’ garantito dall’articolo 6 della CEDU”, pur rientrando tra le garanzie del processo (Corte costituzionale, sentenza n. 263/2017), non sia stato positivizzato neanche a seguito della riforma introdotta dalla legge costituzionale n. 2/1999, tuttavia, la Consulta ne ha ravvisato un’enunciazione implicita nell’articolo 111 Costituzione, nella parte in cui dispone che la “giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”. La Costituzione, cioè, non impone “in modo indefettibile la pubblicità di ogni tipo di procedimento giudiziario” e tanto meno di ogni fase di esso (Corte costituzionale, sentenza n. 263/2017). Non prevede neppure che tale principio assuma carattere di assolutezza poiché, non in tutti i processi, la trattazione orale costituisce un connotato indefettibile del contraddittorio e, quindi, del “giusto processo”, ben potendo tale forma di trattazione essere surrogata da difese scritte tutte le volte in cui lo consenta la configurazione strutturale e funzionale o del singolo procedimento o della specifica attività processuale, e purché le parti permangano su di un piano di parità.
In conclusione, la facoltà di scelta sulla forma del contraddittorio, cartolare o in presenza, ex articolo 33, comma 1, del Dlgs n. 546/1992, costituisce un meccanismo procedurale che consente a entrambe le parti, pubblica e privata, di valutare caso per caso la reale necessità di avvalersi della discussione in pubblica udienza. Tale criterio persegue un ragionevole fine di elasticità in forza del quale le risorse offerte dall’ordinamento devono essere calibrate in base alle effettive esigenze di tutela e non interferisce con la cura dell’interesse pubblico al prelievo fiscale.
3.2 L’avviso senza sentenza allegata non è automaticamente nullo
All’avviso di liquidazione emesso dall’ufficio dell’Agenzia delle entrate per il pagamento dell’imposta dovuta per la registrazione di un atto giudiziario, non deve necessariamente essere allegata la sentenza oggetto di registrazione. Questo principio è stato espresso dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 1973 del 24 gennaio 2022.
Il caso ha riguardato la registrazione di una sentenza della Corte di appello di Napoli, emessa in tema di opposizione alla stima dell’indennità di esproprio. L’Agenzia delle entrate aveva notificato un avviso di liquidazione al fine di riscuotere le somme dovute per la registrazione della pronuncia giudiziale. Nella motivazione dell’avviso erano stati indicati gli elementi necessari a individuare la sentenza alla quale l’atto si riferiva, ma non era stata allegata la sentenza della Corte di appello. Le parti hanno impugnato l’avviso di liquidazione, ritenendo che fosse nullo per difetto di motivazione, a causa della mancata allegazione della sentenza alla quale si riferiva l’atto emesso dall’ufficio.
La Ctp di Napoli ha respinto il ricorso delle parti, mentre la Ctr della Campania (sentenza n. 1253/2016) ha ritenuto fondate le lamentele esposte dai contribuenti. Prima di esaminare le ragioni alla base della pronuncia in commento, è opportuno richiamare l’articolo 7 dello Statuto del contribuente (legge n. 212/2000), in base al quale gli atti dell’amministrazione finanziaria devono essere motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge sulla trasparenza amministrativa, legge n. 241/1990 e devono indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione.
Nel corso del giudizio in Cassazione, l’Agenzia delle entrate ha dimostrato che nella motivazione dell’avviso di liquidazione, la sentenza oggetto di registrazione, pur non essendo materialmente allegata all’atto impositivo, era individuata con l’indicazione dei seguenti elementi: numero del provvedimento, autorità emittente, data di pubblicazione e generalità delle parti.
In particolare, secondo la tesi erariale, bisognava verificare nel merito se gli elementi indicati nella motivazione fossero sufficienti a consentire alle parti di individuare quale fosse l’atto oggetto di registrazione al quale si riferiva l’avviso di liquidazione.
Tutto ciò a prescindere dall’allegazione della sentenza all’atto notificato.
I giudici della Corte suprema hanno accolto le osservazioni dell’Amministrazione finanziaria, sancendo il principio in base al quale:
la mancata allegazione della sentenza all’avviso di liquidazione non determina, automaticamente, la nullità dell’atto stesso per difetto di motivazione
bisogna valutare caso per caso se gli elementi indicati in motivazione sono sufficienti, oppure no, a far comprendere al contribuente quale sia il presupposto impositivo verificatosi e a consentirgli di esercitare il suo diritto di difesa.
È stato, altresì, richiamato un precedente (sentenza n. 26340/2021) della stessa Corte in base al quale:
l’avviso di liquidazione deve ritenersi adeguatamente motivato anche quando, pur in mancanza dell’allegazione della sentenza, contenga gli estremi identificativi essenziali (natura del provvedimento, ufficio emanante, estremi dell’atto, data di pubblicazione) e i criteri, sia normativi che di calcolo, alla base della determinazione del dovuto (base imponibile, aliquota, imposta);
se il contribuente ritiene che la motivazione dell’atto non sia idonea a tutelare le sue ragioni, il giudice dovrà valutare il contenuto specifico della motivazione, indipendentemente dall’allegazione o non allegazione dell’atto giudiziario tassato.
In senso conforme i giudici hanno richiamato altre pronunce, sempre della Corte di cassazione (ordinanze n.239/2021 e n.9344/2021), con le quali era già stato chiarito che:
l’allegazione materiale dell’atto giudiziario tassato è necessaria solo se l’avviso di liquidazione non menziona le enunciazioni o le statuizioni soggette a imposta di registro;
l’obbligo di motivazione di cui all’articolo 7 dello Statuto del contribuente ha lo scopo di garantire il pieno e immediato esercizio delle facoltà difensive del contribuente, ma non riguarda gli atti e i documenti conosciuti o conoscibili dal contribuente.
Per effetto di quanto sopra evidenziato è stato accolto il ricorso presentato dall’Amministrazione finanziaria, al fine di riconoscere la legittimità dell’avviso di liquidazione nonostante la mancata allegazione della sentenza alla quale l’avviso stesso si riferiva.
4 NOVITÀ IN TEMA DI START-UP, INDUSTRIA 4.0, MARCHI E BREVETTI
4.1 Nuovo DPCM per auto e moto elettriche, ibride e a bassa emissione
Si segnala che è stato firmato il Dpcm che ridisegna e finanzia in maniera strutturale l’incentivo per l’acquisto di veicoli, auto e moto, elettrici, ibridi e a basse emissioni. Il provvedimento, firmato dal Presidente del Consiglio Mario Draghi, destina 650 milioni di euro per ciascuno degli anni 2022-2023-2024, che rientrano tra le risorse stanziate dal Governo nel Fondo automotive per il quale è stata prevista una dotazione finanziaria complessiva di 8,7 miliardi di euro fino al 2030.
Nel dettaglio, la misura stabilisce che:
• per l’acquisto di nuovi veicoli di categoria M1 nella fascia di emissioni 0-20 g/km (elettriche), con un prezzo fino a 35 mila euro + Iva, è possibile richiedere un contributo di 3 mila euro, a cui potranno aggiungersi ulteriori 2 mila euro se è contestualmente rottamata un’auto omologata in una classe inferiore ad Euro 5;
• per l’acquisto di nuovi veicoli di categoria M1 nella fascia di emissione 21-60 g/km (ibride plug – in), con un prezzo fino a 45 mila euro + Iva, è possibile richiedere un contributo di 2 mila euro a cui potranno aggiungersi ulteriori 2 mila euro se è contestualmente rottamata un’auto omologata in una classe inferiore ad Euro 5;
• per l’acquisto di nuovi veicoli di categoria M1 nella fascia di emissioni 61-135 g/km (endotermiche a basse emissioni), con un prezzo fino a 35 mila euro + Iva, è possibile richiedere un contributo di 2 mila euro se è contestualmente rottamata un’auto omologata in una classe inferiore ad Euro 5.
Gli incentivi in commento sono concessi soltanto alle persone fisiche; per le piccole e medie imprese, comprese le persone giuridiche, esercenti attività di trasporto di cose in conto proprio o in conto terzi, sono inoltre previsti contributi per l’acquisto di veicoli commerciali di categoria N1 e N2, nuovi di fabbrica, ad alimentazione esclusivamente elettrica.
Sono stati previsti incentivi anche per l’acquisto di ciclomotori e motocicli elettrici e ibridi (categorie L1e, L2e, L3e, L4e, L5e, L6e, L7e): un contributo del 30% del prezzo di acquisto fino al massimo 3 mila euro e del 40% fino a 4000 mila euro se viene rottamata una moto in una classe da Euro 0 a 3.
Per i ciclomotori e motocicli termici, nuovi di fabbrica (categorie L1e, L2e, L3e, L4e, L5e, L6e, L7e) è invece previsto, a fronte di uno sconto del venditore del 5%, un contributo del 40% del prezzo d’acquisto e fino a 2500 euro con rottamazione.
Il provvedimento entrerà in vigore dopo la registrazione della Corte dei conti e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
4.2 Aperta la consultazione pubblica sugli obiettivi del MISE
Si segnala che, a partire da martedì 5 aprile 2022, si è dato avvio alla consultazione pubblica sugli obiettivi e sui risultati di performance del Ministero dello sviluppo economico, al fine di consentire ai cittadini e agli altri portatori di interessi di contribuire con proposte, spunti e suggerimenti.
La consultazione sarà aperta fino al 20 aprile e si articola su sei temi che rappresentano i pilastri della missione istituzionale del Ministero:
• Incentivi e altri strumenti di sostegno;
• Mercato e tutela dei consumatori;
• Comunicazioni;
• Grandi imprese e riconversione industriale;
• Politiche industriali e PMI;
• Affari generali.
La partecipazione alla consultazione potrà avvenire sia in forma anonima sia identificandosi. In questo secondo caso si potrà rimanere aggiornati su come la propria partecipazione contribuirà a migliorare la qualità, la trasparenza e l’efficacia delle attività del Ministero.
4.3 Circolare 1° aprile 2022: obbligo di notifica delle esportazioni di rottami ferrosi al di fuori dell’Unione europea
Si segnala la Circolare del 1° aprile 2022, con la quale il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale forniscono indicazioni operative sull’obbligo di notifica, almeno dieci giorni prima dell’avvio dell’operazione, previsto per le imprese italiane o stabilite sul territorio nazionale che intendano esportare i rottami ferrosi, strategici per le filiere produttive, fuori dall’Unione europea.
La misura, introdotta dal Governo nel decreto recante misure urgenti per contrastare gli effetti economici e umanitari della crisi ucraina, sarà in vigore fino al 31 luglio 2022 e prevede sanzioni amministrative, per chi non osservi l’obbligo di notifica, pari al 30% del valore dell’operazione e comunque non inferiore a euro 30 mila per ogni singola operazione.
Nella circolare viene inoltre precisato che verranno effettuati controlli su mancate notifiche ovvero su notifiche incomplete di concerto con la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Dogane.
Per venire incontro alle richieste delle imprese e al fine di acquisire una completa informativa sull’export di rottami ferrosi è stato pertanto predisposto un modulo che dovrà essere inviato alle due seguenti caselle e-mail:
• nerf@pec.mise.gov.it
• dgue.10@cert.esteri.it
5 NOVITÀ IN MATERIA DI WELFARE E LAVORO DIPENDENTE
5.1 1.1 Approvato schema di D.Lgs. di recepimento della Dir. EU 2019/1158: Equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza
Il Consiglio dei ministri ha approvato oggi lo schema di Decreto legislativo di recepimento della direttiva europea 2019/1158, su proposta del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Andrea Orlando, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. L’obiettivo è quello di promuovere il miglioramento della conciliazione tra i tempi della vita lavorativa e quelli dedicati alla vita familiare per tutti i lavoratori che abbiano compiti di cura in qualità di genitori e/o prestatori di assistenza, al fine di conseguire una più equa condivisione delle responsabilità tra uomini e donne e di promuovere un’effettiva parità di genere, sia in ambito lavorativo sia familiare.
Tra le novità principali, si segnala in primo luogo che entra pienamente a regime la nuova tipologia di congedo di paternità, obbligatorio e della durata di 10 giorni lavorativi fruibile dal padre lavoratore nell’arco temporale che va dai 2 mesi precedenti ai 5 successivi al parto, sia in caso di nascita sia di morte perinatale del bambino. Si tratta di un diritto autonomo e distinto spettante al padre lavoratore, accanto al congedo di paternità cosiddetto alternativo, che spetta soltanto nei casi di morte, grave infermità o abbandono del bambino da parte della madre.
È inoltre aumentata da 10 a 11 mesi la durata complessiva del diritto al congedo spettante al genitore solo, nell’ottica di un’azione positiva che venga incontro ai nuclei familiari monoparentali. Il livello della relativa indennità è del 30% della retribuzione, nella misura di 3 mesi intrasferibili per ciascun genitore, per un periodo totale complessivo pari a 6 mesi. A esso si aggiunge un ulteriore periodo di 3 mesi, trasferibile tra i genitori e fruibile in alternativa tra loro, cui è connessa un’indennità pari al 30% della retribuzione. Pertanto, fermi restando i limiti massimi di congedo parentale fruibili dai genitori, i mesi di congedo parentale coperto da indennità sono aumentati da 6 a 9 in totale. L’indennità spettante ai genitori, in alternativa tra loro, per il periodo di prolungamento fino a 3 anni del congedo parentale usufruito per il figlio in condizioni di disabilità grave è del 30%.
Si aumenta da 6 a 12 anni l’età del bambino entro cui i genitori, anche adottivi e affidatari possono usufruire del congedo parentale, indennizzato nei termini indicati nel punto precedente.
Risulta esteso, inoltre, il diritto all’indennità di maternità in favore delle lavoratrici autonome e delle libere professioniste, anche per gli eventuali periodi di astensione anticipati per gravidanza a rischio.
Infine, i datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile sono tenuti a dare priorità alle richieste formulate dalle lavoratrici e dai lavoratori con figli fino a 12 anni di età o senza alcun limite di età nel caso di figli in condizioni di disabilità. La stessa priorità è riconosciuta da parte del datore di lavoro alle richieste dei lavoratori che siano caregivers.
5.2 Risposta ad interpello n. 159 del 2022: L’applicazione del regime impatriati solo in presenza di discontinuità lavorativa
L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato la risposta a interpello n. 159 del 28 marzo 2022 riguardante il regime speciale per lavoratori impatriati e l’articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147 per l’attività lavorativa prestata all’estero in posizione di distacco.
Il decreto internazionalizzazione ha introdotto il “regime speciale per lavoratori impatriati”. La citata disposizione è stata oggetto di modifiche normative, operate dall’articolo 5 del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (decreto crescita), in vigore dal 1° maggio 2019.
Per fruire del trattamento di cui all’articolo 16 del decreto internazionalizzazione, come modificato dal decreto crescita, è necessario, ai sensi del comma 1, che il lavoratore:
– trasferisca la residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell’articolo 2 del TUIR;
– non sia stato residente in Italia nei due periodi d’imposta antecedenti al trasferimento e si impegni a risiedere in Italia per almeno 2 anni;
– svolga l’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano.
In base al successivo comma 2, il cui contenuto è rimasto immutato rispetto alla versione dell’articolo 16 in vigore fino al 30 aprile 2019, sono destinatari del beneficio fiscale in esame, inoltre, i cittadini dell’Unione europea o di uno Stato extra UE con il quale risulti in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale che:
– sono in possesso di un titolo di laurea e abbiano svolto “continuativamente” un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, ovvero
– abbiano svolto “continuativamente” un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, conseguendo un titolo di laurea o una specializzazione post lauream.
L’agevolazione in esame è fruibile dai contribuenti per un quinquennio a decorrere dal periodo di imposta in cui trasferiscono la residenza fiscale in Italia, ai sensi dell’articolo 2 del TUIR, e per i quattro periodi di imposta successivi.
Per accedere al regime speciale, il citato articolo 16 presuppone, inoltre, che il soggetto non sia stato residente in Italia per due periodi di imposta precedenti il rientro. Detti soggetti possono accedere all’agevolazione a condizione che trasferiscano la residenza fiscale in Italia e si impegnino a permanervi per almeno due anni a pena di decadenza dall’agevolazione.
Al ricorrere, alternativamente, delle condizioni di cui al comma 1 ovvero al comma 2 del citato articolo 16, i redditi di lavoro dipendente, i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, i redditi di lavoro autonomo e i redditi d’impresa prodotti dai soggetti identificati dal comma 1 o dal comma 2 concorrono alla formazione dell’imponibile complessivo nella misura del 30 per cento.
Il regime agevolativo in esame, in base a quanto previsto dal comma 3 del citato articolo 16, si applica per un quinquennio, a decorrere dal periodo d’imposta in cui i contribuenti trasferiscono la residenza fiscale in Italia, ai sensi dell’articolo 2 del Tuir, e per i quattro periodi d’imposta successivi.
Detto articolo 16 non disciplina esplicitamente la posizione del soggetto distaccato all’estero che rientra in Italia; ciò a differenza di quanto previsto dall’articolo 3, comma 4, della legge 30 dicembre 2010, n. 238, concernente il regime di favore per i c.d. “controesodati”, la quale escludeva espressamente dal beneficio ogni forma di distacco.
Sul punto, la circolare 23 maggio 2017, n. 17/E, Parte II, paragrafo 3.1, ha chiarito, tuttavia, che i soggetti che rientrano in Italia dopo essere stati in distacco all’estero “non” possono fruire del beneficio di cui al citato articolo 16 in considerazione della situazione di continuità con la precedente posizione lavorativa in Italia.
Con risoluzione 5 ottobre 2018, n. 76/E, è stato poi precisato che la posizione restrittiva adottata nella circolare n. 17/E del 2017, finalizzata ad evitare un uso strumentale dell’agevolazione in esame, non in linea con la vis attrattiva della norma, non preclude, comunque, la possibilità di valutare specifiche ipotesi in cui il rientro in Italia non sia conseguenza della naturale scadenza del distacco ma sia determinato da altri elementi funzionali alla ratio della norma agevolativa.
Ciò si può verificare, ad esempio, nelle ipotesi in cui:
– il distacco sia più volte prorogato e, la sua durata nel tempo, determini quindi un affievolimento dei legami con il territorio italiano e un effettivo radicamento del dipendente nel territorio estero;
– il rientro in Italia del dipendente non si ponga in “continuità” con la precedente posizione lavorativa in Italia; il dipendente, pertanto, al rientro assume un ruolo aziendale differente rispetto a quello originario in ragione delle maggiori competenze ed esperienze professionali maturate all’estero.
In tali ipotesi, in presenza di tutti gli elementi richiesti dall’articolo 16 del decreto legislativo n. 147 del 2015, si ritiene, infatti, che le peculiari condizioni di rientro dall’estero del dipendente, rispondendo alla ratio della norma, non precludano al lavoratore in posizione di distacco l’accesso al beneficio previsto dal citato articolo 16.
Ad integrazione di ciò, con circolare 28 dicembre 2020, n. 33/E, paragrafo 7.1, è stato precisato che il beneficio fiscale in esame non spetta nell’ipotesi di distacco all’estero con successivo rientro, in presenza del medesimo contratto e presso il medesimo datore di lavoro. Diversamente, nell’ipotesi in cui l’attività lavorativa svolta dall’impatriato costituisca una “nuova” attività lavorativa, in virtù della sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro, diverso dal contratto in essere in Italia prima del distacco, e quindi l’impatriato assuma un ruolo aziendale differente rispetto a quello originario, lo stesso potrà accedere al beneficio a decorrere dal periodo di imposta in cui ha trasferito la residenza fiscale in Italia.
La predetta circolare chiarisce, inoltre, che l’agevolazione non è applicabile nelle ipotesi in cui il soggetto, pur in presenza di un nuovo contratto per l’assunzione di un nuovo ruolo aziendale al momento dell’impatrio, rientri in una situazione di ” continuità” con la precedente posizione lavorativa svolta nel territorio dello Stato prima dell’espatrio.
Diversamente, laddove le condizioni oggettive del nuovo contratto (prestazione di lavoro, termine, retribuzione) richiedano un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente, con nuove ed autonome situazioni giuridiche cui segua un mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione e del titolo del rapporto, l’impatriato potrà accedere al beneficio fiscale in esame.
Di conseguenza l’accesso al regime fiscale agevolativo in commento deve considerarsi precluso laddove non sia possibile ravvisare il requisito della “discontinuità lavorativa”.
5.3 Messaggio INPS n. 1282 del 2022: Indicazioni operative in materia di ammortizzatori sociali
In materia di ammortizzatori sociali, l’INPS ha fornito chiarimenti alle aziende che si trovano nella necessità di sospendere o ridurre l’attività lavorativa. Il messaggio n. 1282 del 2022 contiene, infatti, indicazioni operative sull’applicazione del massimale unico introdotto dalla legge di Bilancio 2022, sui criteri di computo dei limiti temporali per l’assegno di integrazione salariale riconosciuto dal FIS, nonché sulla consultazione sindacale in caso di unità produttive situate in diverse regioni. Ulteriori indicazioni riguardano la possibilità di procedere ad eventuali licenziamenti, individuali o plurimi, in unità produttive non coinvolte dalle sospensioni o riduzioni di attività. Si tratta di una serie di chiarimenti che erano attesi da più parti e che rispondono alle esigenze operative delle aziende che si trovano nella necessità di sospendere o ridurre l’attività lavorativa.
La legge di Bilancio 2022 (l. n. 234/2021) ha previsto che a decorrere dal 1° gennaio 2022 in tutti i casi di sospensione o riduzione di attività trova applicazione un unico massimale, senza più alcuna distinzione nell’ammontare a seconda della retribuzione mensile di riferimento percepita. La nuova misura si applica in tutte le ipotesi di sospensione o riduzione di attività indipendentemente dallo strumento utilizzato (cassa integrazione guadagni
ordinaria e straordinaria, dell’assegno di integrazione salariale del FIS) decorrenti dal 1° gennaio 2022.
Come chiarito dall’INPS con la circolare n. 18/2022:
– il nuovo massimale unico si applica a tutte le richieste di trattamenti relativi a periodi in cui l’inizio della riduzione/sospensione dell’attività lavorativa si colloca a decorrere dal 1° gennaio 2022;
– per le richieste di intervento per riduzione o sospensione dell’attività che si collocano a cavallo degli anni 2021 e 2022 (inizio della sospensione nel 2021) trova applicazione la vecchia disciplina e pertanto il doppio massimale a seconda della retribuzione mensile di riferimento.
Con il messaggio 1282 viene rivista la posizione: per i trattamenti di CIGO, CIGS, e FIS con periodi iniziati nel corso del 2021 e proseguiti nel 2022, per il periodo di pagamento decorrente dal 1° gennaio 2022, si applica il massimale unico ovvero l’importo mensile di euro 1.222,51, al lordo del contributo a carico del lavoratore del 5,84% come definito dalla circ. 26 del 16 febbraio 2022.
La disposizione trova applicazione anche all’assegno di integrazione salariale garantito dai Fondi di solidarietà bilaterali e alternativi, tranne per quei Fondi che garantiscono, per proprio regolamento, importi più favorevoli.
Le modifiche introdotte al FIS dalla legge di Bilancio 2022, oltre a prevedere la prestazione unica dell’assegno di integrazione salariale, riguardano anche la durata del trattamento che viene diversificato a seconda del requisito occupazionale del datore di lavoro
In particolare, a decorrere dal 1° gennaio 2022, l’assegno di integrazione salariale spetta al datore di lavoro che abbia occupato nel semestre precedente mediamente fino a 5 dipendenti per una durata massima di 13 settimane nel biennio mobile; al datore di lavoro che abbia occupato nel semestre precedente mediamente più di 5 dipendenti per una durata massima di 26 settimane nel biennio mobile.
Per quanto riguarda il criterio di computo delle 13/26 settimane, l’INPS precisa che in considerazione del fatto che al FIS trovano applicazione, ove compatibili, le diposizioni in materia di CIG: pertanto troveranno applicazioni le indicazioni della circolare n. 58/2009 ovvero che i limiti massimi devono essere calcolati avendo a riferimento non un’intera settimana di calendario ma le singole giornate di sospensione o riduzione di attività.
La conseguenza è che una delle 13/26 settimane a disposizione, si considererà interamente fruita solo quando si siano utilizzate tutte le 5 o 6 giornate della settimana a seconda dell’orario di lavoro settimanale aziendale.
Si tratta di un chiarimento fondamentale in termini di operatività nella gestione dell’ammortizzatore; ipotizzando di ragionare sul concetto di giorni effettivi a disposizione, i datori di lavoro avranno pertanto un montante di:
– 65 giorni (datori di lavoro fino a 5 dipendenti) e 130 giorni (datori di lavoro oltre i 5 dipendenti) effettivi in caso di settimana lavorativa su 5 giorni;
– 78 giorni (datori di lavoro fino a 5 dipendenti) e 156 giorni (datori di lavoro oltre i 5 dipendenti) effettivi in caso di settimana lavorativa su 6 giorni.
Resta confermato che la collocazione anche di un solo lavoratore per una singola ora in una giornata comporterà la conseguenza che ai fini del computo, l’intera giornata si considererà fruita.
L’Istituto inoltre chiarisce che i limiti di fruizione dei trattamenti di integrazione salariale sono commisurati sulle singole Unità produttive che devono risultare correttamente censite e che a seguito della ridefinizione informatica delle proprie procedure ci sarà la possibilità di disporre di un costante monitoraggio delle giornate effettivamente fruite, che verranno rese visibili ad aziende e intermediari nel cruscotto aziendale.
L’Istituto chiarisce che, con specifico riferimento a quelli che sono gli obblighi di informazione e consultazione sindacale previsti dall’art. 14 del D.lgs. n. 148/2015, nel caso di sospensioni e riduzioni che riguardano unità produttive collocate in diverse Regioni troverà applicazione il criterio della prossimità territoriale ovvero che le aziende dovranno effettuare le informative preventive alle articolazioni territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale avendo a riferimento ciascuna Regione interessata.
Riguardo alla possibilità di procedere ad eventuali licenziamenti, individuali o plurimi, in unità produttive non coinvolte dalle sospensioni o riduzioni di attività, l’istituto precisa che non esiste alcuna preclusione, fermo restando la legittimità dei provvedimenti adottati.
6 NOVITÀ IN MATERIA IVA
6.1 Risposta ad interpello n. 167 del 2022: Cessione di immobili strumentali iscritti nella categoria catastale F/4
L’Agenzia delle Entrate ha illustrato, nella risposta a interpello n. 167 del 6 aprile 2022, il regime IVA applicabile alla cessione di immobili strumentali iscritti nella categoria catastale F/4.
Nella categoria catastale F4 sono classificate le porzioni di un fabbricato già ultimato “non ancora definite funzionalmente o strutturalmente”. Si tratta, dunque, non di fabbricati “da completare”, bensì di fabbricati dei quali non è ancora definita la consistenza (vale a dire l’esatta estensione) e la destinazione d’uso.
In merito agli aspetti IVA, il regime di esenzione di cui all’art. 10, n. 8-bis) e n. 8-ter), D.P.R. n. 633/1972 non trova applicazione. La cessione immobiliare in esame non può fruire dell’aliquota agevolata di cui al n. 127-undecies) della Tabella A, parte III, allegata al decreto IVA, in base al quale sono soggette a IVA con l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta del 10% le cessioni di case di abitazione non di lusso, ancorché non ultimate, purché permanga l’originaria destinazione. Nel caso in questione non si riscontrano i presupposti richiesti dalla disposizione per l’applicazione dell’aliquota agevolata.
Infatti, al momento della cessione gli immobili sono iscritti nella categoria catastale F4, che rappresenta solo una classificazione catastale transitoria/provvisoria in vista dell’iscrizione degli stessi nella categoria catastale definitiva, attestante l’effettiva destinazione d’uso degli immobili.
Come chiarito con la risoluzione 8 aprile 2009, n. 99/E, la categoria catastale F risponde esclusivamente all’esigenza transitoria di indicare che l’immobile si trova in una fase di trasformazione edilizia e non è idonea a ritenere già intervenuto un cambio di destinazione d’uso.
Conseguentemente, l’immobile mantiene la natura che aveva prima di tale classificazione catastale provvisoria, vale a dire, nel caso di specie, natura strumentale.
È applicabile l’aliquota IVA ordinaria del 22%.
In considerazione del trattamento IVA, quindi, per i trasferimenti immobiliari in esame trova applicazione, in virtù del principio di alternatività IVA/registro, l’imposta di registro nella misura fissa di 200 euro. Ai sensi dell’art. 1-bis della Tariffa allegata al D.Lgs. n. 347/1990 e dell’art. 10 dello stesso decreto, le imposte ipotecaria e catastale, vista la natura dei beni trasferiti, sono dovute rispettivamente nella misura del 3 e dell’1 per cento.
7 ALTRE NOVITA’
7.1 Irpef ad aliquota ordinaria se il premio non è un arretrato
L’incentivo erogato al dirigente nell’anno successivo a quello di maturazione perché così è stabilito nell’accordo siglato da datore di lavoro e rappresentanza sindacale, non può essere qualificato come emolumento arretrato pagato in “ritardo” per sopraggiunta “causa giuridica”, di conseguenza, la somma è sottoposta a tassazione ordinaria e non separata. È quanto chiarisce l’Agenzia delle entrate con la risposta n. 173 del 6 aprile 2022.
Il caso esaminato riguarda il quesito di una società che a maggio 2021 ha rinnovato, con la rappresentanza sindacale, il Ccnl. In tale occasione è stato rimodulato l’incentivo (Mbo) massimo erogabile ai dirigenti per il raggiungimento del 100% degli obiettivi assegnati. L’accordo prevede che il premio venga corrisposto nell’anno successivo a quello di assegnazione degli obiettivi.
L’istante chiede se alla somma in questione vada applicata la tassazione ordinaria o separata in quanto riferibile a periodi d’imposta precedenti.
La società ritiene applicabile la norma del Tuir (articolo17, comma 1, lettera b), del Tuir) che prevede una deroga al “principio di cassa” in base al quale, ordinariamente, le retribuzioni erogate ai dipendenti sono rilevanti ai fini Irpef nel periodo d’imposta in cui entrano nella disponibilità dei lavoratori.
La norma richiamata dall’istante è stata introdotta per attenuare gli effetti negativi dei pagamenti di emolumenti arretrati, derivanti della progressività dell’imposta sui redditi. In particolare, la disposizione prevede un regime di tassazione separata nei casi in cui il ritardo è determinato da ipotesi ben precise. La deroga può essere infatti applicata quando l’erogazione è avvenuta in un anno diverso da quello della prestazione a causa di leggi, contratti collettivi di lavoro, sentenze o atti amministrativi sopraggiunti o altre cause non dipendenti dalla volontà del datore di lavoro o dei suoi dipendenti.
Nello dettaglio, la tassazione separata è ammesse per cause di “carattere giuridico” (leggi, sentenze, contratti collettivi, eccetera) che escludono un possibile accordo strumentale tra le parti circa il ritardato pagamento, oppure al verificarsi di “oggettive situazioni di fatto” che impediscono al sostituto d’imposta l’erogazione delle retribuzioni nei tempi ordinari.
Il regime non è mai applicabile quando il ritardo risulta “fisiologico” rispetto ai tempi tecnici necessari per la corresponsione dei compensi.
Nel caso di impedimenti giuridici non occorre effettuare accertamenti per stabilire se il posticipo è di natura “fisiologica”, viceversa la verifica deve essere sempre effettuata se dipende da “oggettive situazioni di fatto” (circolari n. 23/1997 e n. 55/2001, risoluzione n. 43/2004).
Nella vicenda descritta nell’interpello i tempi di pagamento dell’incentivo sono espressamente chiariti nel verbale di accordo tra le parti. Il contratto precisa infatti che l’erogazione del premio Mbo, a decorrere dagli incentivi spettanti per il 2021, avverrà nell’anno successivo a quello di assegnazione degli obiettivi, di norma tra aprile e giugno (per l’anno 2021, quindi, nel 2022).
I termini di pagamento sono stabiliti, quindi, nel contratto siglato dalle parti, di conseguenza, ritiene l’Agenzia, non è possibile identificare la somma quale “emolumento arretrato” qualificazione che ammetterebbe l’applicazione del regime di tassazione separata. In conclusione, non è riscontrabile nella vicenda, come invece sostenuto dall’istante, alcun “ritardo” nel pagamento per sopraggiunta “causa giuridica” e il premio deve essere assoggettato a tassazione ordinaria.
7.2 Si al regime impatriati per l’inglese in attesa della cittadinanza italiana
Un cittadino britannico residente in Italia dal 2016, con due figli minori, una casa acquistata in Italia che il 1° dicembre 2020 ha presentato domanda per avere la cittadinanza italiana e che ha esercitato correttamente l’opzione per l’estensione del regime sugli impatriati, tramite il versamento previsto dal decreto “Crescita” (articolo 5 comma 2-bis, lettera a) del Dl n. 34/2019) rispettando i tempi indicati nel provvedimento del 3 marzo 2021, ha tutti i requisiti per beneficiare dell’agevolazione per ulteriori cinque anni, anche se al 1° gennaio 2021, data da cui è possibile estendere l’agevolazione, è ancora cittadino del Regno Unito. In base all’”Accordo Brexit”, entrato in vigore a partire dal 1° febbraio 2020, infatti, è vietato discriminare i cittadini inglesi sulla base della loro cittadinanza, negando i vantaggi fiscali concessi agli altri lavoratori comunitari. È la sintesi della risposta n. 172 del 6 aprile 2022.
L’istante chiede se possiede i requisiti per fruire dell’estensione dei benefici per i lavoratori impatriati che prevede la fruizione del regime agevolato per ulteriori cinque periodi di imposta, in applicazione del principio di non discriminazione previsto dall’Accordo Brexit. Chiede, inoltre se il fatto che ha ottenuto la cittadinanza in data successiva alla scadenza dei termini per l’esercizio dell’opzione di cui all’articolo 1, comma 50, della legge n. 178/2020 pregiudichi la possibilità di accesso all’opzione per assenza dei requisiti richiesti dalla norma.
L’Agenzia ricorda, in primo luogo, le modifiche apportate al regime sugli impatriati (articolo 16 del Dlgs n. 147/2015) dal decreto “Crescita” (articolo 5, comma 2 Dl n. 34/2019) che in sostanza ha incrementato le percentuali di riduzione dell’imponibile fiscale dei redditi agevolabili e ha esteso il beneficio, in presenza di alcuni requisiti, a un ulteriore quinquennio del periodo agevolabile. Tali modifiche, in vigore dal 1° maggio 2019, prevedono che “a partire dal periodo d’imposta incorso, ai soggetti che a decorrere dal 30 aprile 2019 trasferiscono la residenza in Italia ai sensi dell’articolo 2 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e risultano beneficiari del regime previsto dall’articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre2015, n. 147”.
Con riferimento al caso in esame, la condizione dell’istante di essere cittadino britannico al 1°gennaio 2021, data da cui è possibile estendere per ulteriori 5 anni la fruizione dell’agevolazione per gli “impatriati” (articolo 1, comma 50, della legge n. 178/2020), comporta l’applicazione del principio di non discriminazione previsto dall’articolo 12 dell’Accordo Brexit che garantisce ai cittadini del Regno Unito di godere degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali.
L’istante in definitiva, avendo esercitato correttamente l’opzione tramite il versamento previsto dal decreto “Crescita” (articolo 5 comma 2-bis, lettera a) secondo i tempi indicati nel provvedimento del 3 marzo 2021, potrà fruire del regime agevolato per gli impatriati (articolo 16 del Dlgs n. 147/2015) per l’ulteriore quinquennio 2021-2025.
7.3 Da banca a Sim in corso d’anno: regole fiscali secondo “prevalenza”
La società interessata da un’operazione di scissione parziale, che in seguito alla stessa, nel corso del 2022, cesserà l’attività bancaria per intraprendere quella “prevalente” di intermediazione mobiliare, potrà determinare Ires e Irap dovute per quest’anno, applicando la specifica disciplina prevista per le società di intermediazione mobiliare (Sim).
A parere dell’Agenzia, riportato nella risposta n. 179 del 6 aprile 2022, non ricorrono gli estremi che determinano l’interruzione del periodo d’imposta alla data di efficacia della scissione. In esito all’operazione di riorganizzazione, infatti, non si produrrà alcuna modifica soggettiva idonea a legittimare l’applicazione di un diverso regime fiscale, risultando mutate esclusivamente le regole di calcolo dell’imposta sul reddito (a fini, ad esempio, dell’aliquota Ires, della disciplina degli interessi passivi e dei criteri di determinazione del valore della produzione netta ai fini Irap).
La dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio 2022 dovrà essere compilata sulla base del primo bilancio d’esercizio successivo alla stessa scissione, assumendo l’esercizio per la sua durata ordinaria. In particolare, riguardo agli obblighi dichiarativi, la società istante dovrà applicare in relazione a tutto il periodo d’imposta le regole di determinazione previste, ai fini Ires e Irap, per i soggetti bancari ovvero per le società di intermediazione mobiliare sulla base di un criterio di prevalenza dell’attività svolta in corso d’anno, da individuare a seconda dell’entità dei proventi reddituali conseguiti.
Pertanto, se l’attività prevalente svolta nel 2022 sarà quella di Sim, la società non solo potrà adottare i criteri di calcolo dell’Ires e dell’Irap previsti per le società di intermediazione mobiliare, ma sarà esclusa dall’applicazione dell’addizionale Ires, alla quale sono soggetti gli intermediari finanziari e la Banca d’Italia (articolo 1, comma 65, legge n. 208/2015).
Sul piano operativo, nel rigo RF1, campo 1, del modello di dichiarazione andrà dunque indicato il codice dell’attività svolta in via prevalente, desunto dalla tabella di classificazione delle attività economiche ATECO 2007, consultabile sul sito dell’Agenzia, nella sezione “Strumenti”, unitamente al volume d’ausilio contenente le note esplicative e le tabelle di raccordo tra i codici ATECOFIN 2004 e ATECO 2007.